| Chitarre
        lontane e poco incisive, batteria di cartone.
                    
 Per
        moltissima gente l’uscita del nuovo album della band di De Maio ha
        sempre rappresentato un vero e proprio avvenimento. La band vanta
        milioni di fedelissimi fans in tutto il globo pronti ad osannare e
        supportare i 4 americani ogni qualvolta questi si affacciano sul
        mercato, sia con prodotti inerenti la musica prettamente detta, sia con
        prodotti di dubbia qualità, vedansi i vari ed inutili gadget che da
        qualche lustro ci propongono senza tregua.
        
         Ebbene,
        oggi prendiamo in esame la nuova raccolta di inediti che i Manowar ci
        regalano dopo l’obbrobrio rappresentato dalla reincisione del classico
        Battle Hymns…Ehm, scusate, ho detto “raccolta di inediti…”. In
        realtà non so fino a che punto queste nuove fatiche dei quattro yankee,
        norvegesi d’adozione, possano essere considerate canzoni inedite…Bè,
        dal punto di vista commerciale lo sono sicuramente, ma dal punto di
        vista artistico non penso proprio.  Che
        i Manowar siano una band artisticamente statica è cosa ormai risaputa,
        e ve lo dice uno che li ha amati alla follia fino a Warriors of the
        World, ma sinceramente, da fan, io mi sento offeso da quanto ci viene
        proposto con questo Lords of Steel. Tralasciando la banalità del
        titolo, cosa di per sé già abbastanza fastidiosa, e la scontatezza
        dell’ennesima copertina già proposta in passato (Sign of the Hammer),
        quello che proprio puzza di presa in giro a miglia di distanza è
        proprio la musica in sè…Ci vogliono 5 anni per comporre cotanta
        elementare accozzaglia di note??? Chiunque, anche alle prime armi, abbia
        tenuto in mano una chitarra con l’intento di suonare un po’ di sano
        Heavy Metal avrà partorito riff uguali, se non migliori, a quelli che
        oggi ci propongono i Manowar dopo quasi 30 anni di carriera… Canzoni
        prive di mordente, fiacche, di una scontatezza disarmante e, cosa
        peggiore, con un suono a dir poco pessimo. I demos di oggi suonano cento
        volte meglio. Chitarre lontane e poco incisive, batteria di cartone, e
        basso ultrafiltrato che sembra più un rantolo che uno strumento. 
  Come
        di consueto le
        uniche
        cose buone sono rappresentate da un Eric Adams sempre grande, che, anche
        se non più eccelso come un tempo, fa guadagnare un po’ di terreno ad
        un album altrimenti davvero disastroso. Inutile parlare delle
        prestazione degli altri membri, in quanto è tutto così piatto e
        semplicistico che nulla attrae l’attenzione o da motivo a sussulti. La
        title track, Hail, Die and Kill, Born in a Grave, la ridicola El Gringo,
        non sono altro che banalissime canzoncine che chissà quante volte, in
        passato, uno come David De Feis avrà scartato sconcertato. 
        E poi basta con queste continue esternazioni di falsa potenza in
        ogni singola canzone…Glory, metal, steel, honour, pride, hail…Ma
        basta, basta!!! Scrivete un testo che abbia un minimo di senso. Non si
        può pubblicare un dischetto come questo "The Lord of Steel",
        dopo cinque anni di nulla. Un disco che per comporlo, arrangiarlo,
        registrarlo e mixarlo, una band “normale” avrebbe impiegato
        sei-sette mesi, non di più, ottenendo un risultato finale di sicuro
        migliore.   Non
        sto qui ad elencare i vari “deja vù” che saltano all’orecchio
        durante ogni singolo brano; si parla di intere parti prese da altri
        album: Louder Than Hell, Warriors of the World e Gods of War vengono
        letteralmente saccheggiati. Ma saccheggiassero Hail to England o Into
        Glory Ride almeno…Si potrebbe sperare in un risultato migliore di
        questo piattissimo platter. Purtroppo, non posso che sottolineare il
        passo falso che i “furono grandi” Manowar hanno compiuto con questo
        nuovo album; un album che mostra come i quattro defender siano diventati
        una timida fotocopia sbiadita di ciò che sono stati in passato. Nel
        2012, con band sempre più tecnicamente e compositivamente avanzate, con
        produzioni da paura, è quantomeno un suicidio presentare un disco come
        questo. Non sono un amante dello sfoggio di tecnicismi musicali, anzi
        tutt’altro, ma c’è un limite a tutto. Da una band sulla breccia da
        30 anni è lecito aspettarsi qualcosa in più di questo piattume di
        album. Un album che non consiglierei neanche a te, caro die hard fan del
        quartetto americano, perché sinceramente, da vero fan, dovresti
        sentirti quantomeno preso in giro.
        
        
        
        
 4/10
 23.06.2012
 
 
                     written
        by Ignazio Nicastro, EVERSIN
                  Bass player
  facebook |